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Una chiacchierata su Pescara

a Pescara - Luglio 2010

 

Nell'incertezza del tempo ci si può sempre affidare alla credenza popolare, derivata dalla osservazione del comportamento degli animali. Tra i più  "meteorologi" ci sono i gracchi, uccelli simili ai 

corvi, con piume nere, becco grigio e giallo, zampe arancione, dal canto simile a un fischio. Li hanno osservati grandi sapienti del passato. Aristotele, Teofrasto, Arato, Artemidoro dell'antica Grecia e,   per il mondo latino, Plinio il Vecchio, Avieno, Ovidio: tutti affermano che annunciano pioggia o tempesta con il ritorno ai nidi gracchiando, i voli verticali, lo scuotimento delle ali vicino alle gronde delle case, lo spidocchiarsi sulle rive dei fiumi o sulle spiagge.   Il grande poeta latino, nato a Sulmona, Publio Ovidio Nasone, nel suo "Amores" annotava: «Et pluviae graculus auctor aquae (e il gracchio precursore della pioggia) ». Secondo Avieno, traduttore del greco Arato, il gracchio annuncia tempesta quando torna di sera al nido gracchiando («Hesperus aethra/cum redit, innumero si cantu graculus instat») e pioggia quando vola in circolo con grande animosità («Agmine cum denso circumvolitare videtur graculus»). Come non crede a così autorevoli scrittori? A proposito, ieri Pescara è stata la città più calda d’Italia: 28°. Oggi posso dire che incominceranno le mia vacanze 20010 e mi auguro solo di avere per i prossimi venti giorni solo sole da farne il pieno fino all'anno prossimo.

 


Ezechiè, il poeta pescatore «Il mare, magnifico e tremendo»


«
Na vote, lu tempe li marinare li vedevene da lu Gran Sasse e la Majelle. Si la Majelle tineve na nuvole di sotto ere scirocche. Si lu Gran Sasse li tineve davante lu tempe si cagneve. Ma quande la Majelle mitteve lu cappelle ere gricale forte». I pescatori degli anni ‘50, senza radio né bussole, percepivano le previsioni meteo così, alzando gli occhi verso le montagne. Un metodo infallibile. Marino, pescatore in pensione di 76 anni, di cui 42 passati al comando del “Fosforo” prima e di “Aloa” poi, pescherecci compagni di mille avventure, descrive la “meteorologia fatta in mare” riprendendo alcuni passi di una sua poesia, “Lu Tempe”, pensata tanti anni fa quando, in un’umida sottocoperta, cercava di prendere sonno facendosi cullare dalle onde. Versi solo pensati, mai trascritti. Odiava metterli su carta, lui che poeta non si è mai sentito. Le poesie le hanno riportate in superficie i vecchi amici, approfittando della memoria di ferro di Marino: può recitarle una a una mentre passeggia lungo la banchina. I libri sono stati il suo passatempo preferito durante i tempi morti della pesca. Leggeva tanto, utilizzando i manuali regalati da alcuni professori dell’istituto Manthonè: «Ero attratto soprattutto dall’occupazione giapponese in Cina -racconta Marino- Divoravo libri su libri cercando di farmi una cultura». “Ezechiè”, così è soprannominato in quel borgo dove ognuno viene apostrofato con un nomignolo, si immerge nei ricordi citando le sue creature: dal “Pescatore”, inno ad un mestiere pericoloso («L’ansia, l’attesa e la paura della tempesta, quando il mare irrompe sulla murata e tu cerchi con la spalla di raddrizzare lo scafo»), alla “Preghiera”, pensando alla Madonnina del porto («Tu che di qui passi, fermati. Guarda verso il mare e prega per tutti coloro, che senza differenza di color di pelle, ora riposano su un letto di alghe e per coperta il mare»). Fu proprio Marino a incontrare per primo padre Moretta, parroco amato dalla marineria: «Entrammo subito in confidenza e gli consigliai due cose: spostare la messa sul mare e costruire una croce nel porto a protezione di tutti i marinai. Realizzò entrambe le cose: una cappella all’interno di Villa De Riseis e la storica Madonnina». Il bel cottage in riva al mare dei baroni lo riporta con la mente all’infanzia «quando per mangiare cacciavamo i passerotti con le fionde e ci facevamo gli spiedini utilizzando gli aghi dei pini». Poi parla del suo mestiere: «Della pesca ho amato il senso di libertà che solo il mare ti sa donare, mentre il brutto è che di solito mangi quando non hai fame e dormi quando non hai sonno». Una vita dura, spesa in quel mare a cui dedica la più struggente poesia: « E’ geloso nei suoi segreti, bellissimo nella sua calma, tremendo nella sua ira. È esigente nel suo tributo di sangue ».

Suonatori lungo il Corso - Oggi



Giusto cent'anni fa, di questi giorni e con lo stesso caldo, Gabriele D'Annunzio ed Eleonora Duse, insieme con la figlioletta dell'attrice Cicciuzza, se ne andarono al mare. Li ospitava il principe Borghese nella sua magnifica villa di Nettuno, sessanta chilometri a sud di Roma, trenta a nord del Circeo. Villa e dintorni erano, e malgrado gli scempi lo sono ancora, uno dei posti più belli del Mediterraneo. La bellezza di Nettuno, già ai tempi dell'Impero Romano, era così rinomata che molte famiglie patrizie vi avevano possedimenti magnifici, tanto che là nacquero Nerone e Caligola. La villa, che nel corso dei secoli aveva avuto molti ospiti illustri, tra gli altri la regina Cristina di Svezia e Paolina Bonaparte, poteva ben vantarsi di dare ombra, ristoro e pace a due dei personaggi più popolari e parlati dell'Italia e dell'Europa di allora. Gabriele ed Eleonora stavano insieme ormai da una diecina di anni e il loro amore si andava spegnendo. Il poeta, ormai anche sperimentato drammaturgo, e l'attrice che aveva fatto vibrare di passione le platee di mezzo mondo, e aveva scatenato gli entusiasmi di artisti come Hofmansthal e Rilke, avevano alle spalle un sodalizio teatrale consistente e profondo. Fino ad allora lui aveva scritto, e lei interpretato Sogno di un mattino di primavera; La Gioconda; La gloria; La città morta e La Francesca da Rimini, ma non avevano mai centrato il successo con la maiuscola, non erano riusciti a realizzare l'opera epocale. Lo sapevano e non gli andava bene. Cercavano il colpo grosso, il successo di pubblico di critica e di cassetta. Durante quello che avrebbe potuto trascinarsi come un banale soggiorno borghese, il demone creativo improvvisamente si scatenò e D'Annunzio, con impeto febbrile, si lanciò nella sfida. Andare oltre e aldilà della convenzione del dramma per avventurarsi nell'universo più alto, e definitivo per un autore teatrale, della tragedia. Da molti anni l'immagine della fanciulla inseguita per le strade di Tocco da Casauria dai mietitori ubriachi e infoiati gli tornava alla mente. Lui e il suo grande amico e mentore Francesco Paolo Michetti avevano casualmente assistito alla scena una ventina di anni prima e non l'avrebbero mai dimenticata. Il pittore ne avrebbe tratto l'opera pittorica che aveva trionfato alla Biennale di Venezia del 1895, il poeta l'eroina della sua la tragedia: La Figlia di Iorio.

 

Via Gabriele D'Annunzio 1905

 

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