Gabriele d'Annunzio.  D'ANNUNZIO  FOTO

La Figlia Di Iorio. Il Vate e Il richiamo della Majella

 

Nel secondo atto della tragedia, dopo il disgraziato spegnimento del lume votivo alla Madonna, e il colloquio con Ornella, la Figlia di Iorio decide di darsi la morte. Solo così, pensa, può restituire la normalità e la pace ad Aligi e alla sua gente. Decisa al sacrificio, chiede ad Anna Onna di darle quelle radici « che ammazzano subito i lupi, le barbe dell’erba luparia ». Ma la vecchia si rifiuta e le risponde di ripensarci «un giorno un mese un anno. Con l’erbe di Madre Montagna si guarisce ogni male e malanno». Ancora una volta viene tirata in ballo dal Poeta la Maiella Madre. La Majella, come si scriveva più anticamente, quando si preferiva ancora l’uso romano antico che (tra l’altro) con un solo nome identificava un insieme, è in realtà un sistema montuoso di molte vette, praticamente il più grande del Mediterraneo. Ben trenta cime superano i duemila metri, a cominciare dal monte Amaro che sfiora i tremila. Madre è l’appellativo che l’accompagna da sempre e discende direttamente dalla sua leggenda. Al tempo dei miti, ancora prima della didascalia dannunziana « or è molt’anni » che non colloca temporalmente la tragedia pastorale sconfinandola nel passato, c’era (in Frigia) una guerriera detta magellana per la sua grande potenza fisica. Maja, questo il suo nome, aveva un figlio bellissimo che, sceso insieme con lei in battaglia, cadde tremendamente ferito. Disperata, la madre guerriera, trasportò il figlio al monte Paleno, sacro a Giove e ricco di piante medicamentose, perché guarisse. Ma era inverno e la neve alta seppelliva le erbe e il giovane morì. Da allora la magellana restò a vegliare la tomba del figlio bellissimo e tanto ne soffriva che Giove, intenerito, per ricordarlo piantò il majo, pianta

 

 

arborea dai bei fiori gialli che fiorisce nei boschi montani. Oggi chiamiamo maggiociondolo il regalo del dio e Maiella, da Maja e da magella, ovvero grande, il monte Paleno. Non ci fossero stati la neve e l’imperscrutabile disegno del destino, madre e figlio avrebbero trovato sicuramente molte erbe medicamentose che, ancora oggi, sono il regalo di una natura di enorme diversità biologica, spesso allo stato di wilderness. Il timo e la menta, che già Mila di Codra con accenti d’amore augura come compagni di sonno benefico ad Aligi, è facilissimo incontrarli facendo escursioni e passeggiate. Accanto a loro ci sono la santoreggia, la melissa, la salvia, l’issopo, l’iperico che combatte la depressione e il ligustico cuneiforme da cui si ricavano gli olii per i profumi. Con i molti tipi di genziana e l’assenzio rupestre si producono liquori digestivi. L’elleboro nero è, probabilmente, l’erba che uccide i lupi secondo Mila di Codra e la fantasia di D’Annunzio, che conosceva anche le piante velenose, ovvero velenose se assunte in quantità, come la digitale e la cicuta che crescono spontaneamente sulle nostre montagne. Qui s’incontra la Scarpetta di Venere, una delle quattro specie di orchidee italiane riconosciute dalla " Convenzione di Washington " e, giusta curiosità tra le tante, l’ Erba Unta di Reichembach, una pianta rupestre che trattiene, con le sue foglie vischiose gli insetti, e se li mangia. Ricchissima di microclimi, un vero e proprio laboratorio vivente e pulsante, tanto che i climatologi di mezzo mondo vengono a fare ricerca, la

 

 

Maiella presenta specie di flora mediterranea, alpina, balcanica, pontica, illirica, pireneica e addirittura artica. La sua biodiversità rappresenta il trenta per cento dell’intera flora italiana. L’orso bruno, il lupo, la lontra, il capriolo e il cervo abitavano i boschi, i fiumi e le praterie, mentre le aquile volavano a caccia di prede imponendo la loro supremazia al falco pellegrino, all’astore e al rarissimo linicolo boreale. Un’altra presenza nella grotta di Aligi, e a lui (in cerca di consiglio) racconta la storia sua e di Mila, è Cosma il Santo della Montagna. Anche qui D’Annunzio si rifà alla tradizione. La Maiella è luogo di eremi, di conventi e di abbazie. Tanto che uno dei suoi caratteristici paesi, Abbateggio, si chiama così perché dedicato, alla sua fondazione, all’Abbate Giovanni, reggente dell’Antica Abbazia di San Clemente a Casauria. Il vecchio Cosma dovrà lasciare, dopo avere espresso alcune criptiche profezie ai poveri Mila ed Aligi, la grotta perché dei pastori sono venuti a chiamarlo per esorcizzare uno di loro, in preda ad oscuri tormenti. Aligi, più tardi, per inganno, sarà anche lui chiamato agli stazzi per curare una pecora malata. Nell’universo della pastorizia si iscrive la realtà di Aligi, lo conosciamo che è appena tornato dal soggiorno in Puglia, lo lasceremo in tempo di transumanza, alla fine dell’estate, sempre verso quelle terre. Ancora una volta D’Annunzio apre uno spiraglio sulla realtà, la pastorizia essendo stata per secoli l’economia prevalente del territorio della Maiella e la transumanza la caratteristica centrale di quel tipo di allevamento. Fu Alfonso D’Aragona che codificò il fenomeno istituendo nel 1477 la “ Regia Dogana della mena delle pecore in Puglia”, giusto per taglieggiare con le tasse. Lungo i tratturi, le grandi vie arboree che scendevano alla pianura e al mare, si fondavano città, si ergevano chiese, si aprivano bettole e si allestivano fiere, fioriva un’intera economia e si intrecciavano destini. Per queste strade i pellegrini raggiungevano anche i luoghi di culto e, rispettosamente, cercavano di visitare i famosi eremi che, proprio per questo, erano edificati nei luoghi più impervi, spesso scavati nella roccia. Visitarli è aprire una finestra sul passato. 

D' ANNUNZIO Il mio inno alla Serbia
 

 

 Nel 1915 il Vate, sollecitato dal direttore Luigi Albertini, scrisse per il "Corriere" un' ode in difesa della nazione balcanica. Che anticipa i conflitti attuali D' ANNUNZIO Il mio inno alla Serbia La passione per un popolo che si sacrifico' per difendere il "Cossovo" dagli ottomani "Tieni duro, Serbo!... Se pane non hai, odio mangia; se vino non hai, odio bevi; se odio sol hai, va sicuro". Gardone Riviera, novembre del 1915. Da poco piu' di cinque mesi l' Italia e' in guerra con l' Austria. Sul Carso e sull' Isonzo l' esercito guidato da Luigi Cadorna ha gia' subito gravi perdite. Gabriele d' Annunzio e' tornato dall' esilio volontario in Francia per spingere "l' Italietta meschina e pacifista" ad abbandonare la sua iniziale neutralita' . Ora ne vuole diventare il poeta - soldato. Alla villa del Vittoriale, d' Annunzio e' impegnato su due fronti: di giorno intrattiene Melitta, la focosa amante del momento, di notte si siede alla scrivania per comporre un' ode commissionata all' inizio del mese dal direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini. Sul diario confessa i suoi turbamenti di intellettuale angosciato da "un tremendo tedium vitae": "Penso ai Serbi e a Marco Cralievic. Onde liriche... Il rombo del cannone e' lontano. La vita energica e' laggiu' , come dileguata da me per sempre. Ho sotto mano i canti epici serbi: "S'alzo' di Cossovo una fanciulla / s'alzo' per tempo in di' di domenica / Domenica, prima del chiaro sole...". I versi che fanno sognare d' Annunzio sono i "Canti popolari illirici" del Tommaseo. Il Cralievic che lo affascina e' il celebre eroe medievale serbo, simbolo della resistenza contro l' invasore straniero. E il Cossovo che turba le notti del Vate e' la terra sacra alla coscienza serba: e' li' che, nel 1389, l' intera nobilta' serba si era sacrificata in battaglia nel tentativo - fallito - di fermare l' esercito ottomano, cambiando per sempre la storia dei Balcani. Il 16 novembre d' Annunzio termina di scrivere la poesia. E' lunga, ricca di riferimenti mitologici. E molto patriottica. S' intitola "Ode alla Nazione Serba" e leggerla oggi, a 84 anni dalla sua pubblicazione sul Corriere (avvenuta il 24 novembre), significa riaprire un capitolo dannunziano finito dimenticato, ma piu' che mai attuale: la sfrenata passione del Vate per la Serbia, vista come piccola nazione eroica

 

 

alla quale la Storia ha riservato solo ingiustizie, e per il Kosovo, che ne rappresenta il cuore emotivo. Tanto che, negli anni successivi, d' Annunzio si mise anche a capo di un "Comitato per l' indipendenza del Cossovo" che - quanto a irredentismo filo - serbo - sembra uscito dalla propaganda di Slobodan Milosevic. Oggi l' Italia si commuove davanti alla tragedia dei profughi albanesi cacciati dal Kosovo. Ma in quell' autunno del 1915, agli inizi di una guerra che si era gia' rivelata difficile, l' Italia parteggia per la piccola Serbia, vittima dell' Austria. Tanto che l' ode di d' Annunzio viene pubblicata accanto a un reportage dell' inviato Arnaldo Fraccaroli e intitolato "Gli strazi della Serbia invasa". Sono, anche se visti in modo rovesciato, gli stessi strazi delle cronache di oggi. I luoghi evocati da d' Annunzio - e dal giornalista Fraccaroli - sembrano tratti dalle corrispondenze di guerra di questi giorni. C' e' la Macedonia, ci sono Uzice e Ralia, "Scoplia" (Skopje) e le cime del Banovo Berdo. C' e' anche la "bianca Belgrado", che di li' a pochi giorni sarebbe stata conquistata dagli Imperi Centrali. Per d' Annunzio e' proprio l' Austria il nemico mortale dal quale si deve guardare "l' Impero dei Latini", sognato dal poeta come un' unica nazione che unifichera' il Mediterrano e i Balcani sotto la guida di Roma. Per il momento, tuttavia, incombe l' amara realta' del conflitto. E gli austriaci vengono descritti cosi' : "Il boia d' Asburgo, l' antico / uccisor d' infermi e d' inermi, / il mutilator di fanciulli / e di femmine". L' espressione pulizia etnica non era ancora stata inventata. Ma le accuse di ferocia nei confronti delle popolazioni civili sono le stesse che oggi la comunita' internazionale rivolge a Milosevic. Il quale e' andato al potere nel 1992 proprio evocando le tre tragedie serbe: la battaglia del Kosovo che porto' alla dominazione ottomana, la sconfitta nella prima guerra mondiale e le persecuzioni subite durante il nazismo. Revanscismo. Nazionalismo. Celebrazione delle sconfitte. Perche' tutto, nei Balcani, si ripete e si intreccia. E nulla si perdona, anche se e' avvenuto secoli prima. Cosi' , d' Annunzio incita i serbi a "tener duro" contro gli austriaci in nome di quel Marco Cralievic che teneva duro contro i Valacchi. E, pochi anni dopo, quando il poeta occupa Fiume, tra i suoi legionari ci sono diversi serbi, che gli restituiscono il favore. L'ode dannunziana segna gli inizi di quell' asse italo - serbo che, secondo alcuni osservatori, non e' mai venuto meno. Poche settimane dopo, tra il dicembre 1915 e il febbraio 1916, la nostra Regia marina porta in salvo in Italia 200 mila soldati serbi in rotta dagli austriaci. Ma nella sua ode il Vate prevede nuove guerre: "In Cossovo teco i Latini / combatteranno domani / sotto il gonfalone crociato". Purtroppo la Storia gli ha dato ragione. "Pioveranno palanche" Una poesia da tremila lire La sua firma prestigiosa veniva pagata a peso d' oro Così si salvò dai debiti Con il "maggio radioso", come d' Annunzio battezzò la sua campagna per l' intervento dell' Italia nella Grande guerra, il compito del Vate dovrebbe considerarsi quasi concluso. La propaganda bellica, se mai, si sarebbe giovata delle sue straordinarie doti oratorie, ma non si poteva supporre che d' Annunzio fosse decisissimo a combattere. Non solo il governo mira a non farlo combattere, anche Luigi Albertini, direttore del "Corriere della Sera", sollecita d' Annunzio a fare la guerra con le parole e non con le armi. Proprio a lui si deve l' ingresso di d' Annunzio in grande stile nel "Corriere". Nella veste ricattatoria di curatore del fallimento che ha costretto il Vate all' espatrio (sommerso dai debiti, nel 1910 ripara ingloriosamente in Francia), Albertini ha avuto buon gioco nell' accaparrarsi il collaboratore d' eccezione che appunto gli consegnerà' a cadenza settimanale le "Faville del maglio". Mille lire al brano: l' alto compenso e' senza precedenti e salirà a duemila lire quando con la guerra di Libia, fra il 1911 e il 1912, d' Annunzio scrive per il "Corriere" le "Canzoni di getta d' Oltremare". + del resto conveniente strapagare quei versi. Grazie alla firma prestigiosa la tiratura raggiunge le 700.000 copie e talora le supera sfiorando il milione. Non possono, ora, dopo che il "Corriere" ha appoggiato l' intervento, mancare i versi del Vate. Che invece rilutta: si dice risoluto a comporre la sua opera piu' bella "non con le parole ma con le vite umane". Insiste: "non scrivero' finche' non avro' avuto il battesimo del fuoco", e intanto si appresta a volare su Trento e Trieste. Albertini alza allora la posta e offre tremila lire per ogni componimento - una cifra allettante. Siamo nel novembre 1915, in una spettrale Venezia dove si respira aria di morte. Una venticinquenne napoletana, malmaritata, bionda e leziosa e' il doping indispensabile per la scrittura. D' Annunzio la porta in gondola fra le nebbie della laguna e lei e' nuda sotto la pelliccia... "Faro' la mia cantata" concede ad Albertini "e poi, come i canterini girovaghi, pendero' il cappello e pioveranno le palanche".

 

 

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