Gabriele d'Annunzio.  D'ANNUNZIO  FOTO

 

Il suo volo su Trento 

 

 

Il 1° marzo 1938, nella cornice funerea e inquietante del Vittoriale, a causa di un'emorragia cerebrale, si spegneva Gabriele D'Annunzio. Nell'uomo anziano e solitario, tormentato dagli acciacchi e da una cupa malinconia, era difficile riconoscere il vate del nazionalismo, che con i suoi discorsi infiammati aveva contribuito non poco alla vittoria degli interventisti che premevano perché l'Italia partecipasse alla prima guerra mondiale. Era un personaggio dalle mille sfaccettature, che non si accontentava di dare sfogo alla fantasia nelle sue opere letterarie, ma aveva voluto concedersi il piacere di recitare i ruoli più diversi anche sul palcoscenico della vita. Fu accolto in tutti i salotti della Belle Epoque e divenne l'amante di donne belle e famose come l'attrice Eleonora Duse e la marchesa Alessandra di Rudinì, che lo lasciò per farsi suora. Si ritirò poi in «volontario esilio» in Francia per sfuggire ai creditori, stanchi di aspettare che onorasse i debiti contratti per sostenere il suo grandioso tenore di vita. Ovunque andasse, riusciva a conquistare legioni di ammiratori. Ma erano ben altre le legioni cui aspirava. L'autore del «Fuoco» era attratto dall'odore della polvere da sparo. Il pubblico se ne accorse già con le «Canzoni delle gesta d'oltremare» composte nel 1912 in onore della guerra di Libia e ne ebbe la definitiva conferma quando rientrò dalla Francia nel maggio 1915, giusto in tempo per essere protagonista delle «radiose giornate» interventiste. La sua prima apparizione pubblica fu a Quarto, da dove era partita l'impresa dei Mille di Garibaldi. Accanto a lui, c'era Cesare Battisti, a capo dei fuoriusciti di Trento, che l'oratore definì «i più fieri allo sforzo e i più candidi». Pur perseguendo gli stessi ideali, i due personaggi non avrebbero potuto essere più diversi. Serio, riservato, talvolta addirittura ombroso, l'irredentista trentino; istrionico, provocatorio, maestro nell'utilizzare le sue indubbie capacità per fini autopromozionali, il poeta pescarese. Si ritrovarono venti giorni dopo, al Campidoglio di Roma. D'Annunzio definì il neutralista Giolitti capo di una banda di malfattori e rievocò le glorie dei Mille, poi si fece portare la spada di Nino Bixio e la baciò con un gesto teatrale. Battisti apparve al balcone dopo di lui, tra le bandiere di Trento e di Trieste e lanciò il famoso appello «Ed ora alle frontiere. Con i cuori e con le spade». Si trattava di una citazione dal Vittor Pisani del poeta trentino Giovanni Prati, che con le sue opere patriottiche era diventato il cantore ufficiale del Risorgimento. In quel momento di esaltazione nazionalista, furono molti i personaggi illustri a chiedere un fucile e una gavetta per poter partire per il fronte. Battisti e D'Annunzio furono però tra i pochi a mantenere fede all'impegno. Il poeta si arruolò volontario con il grado di tenente di cavalleria anche se aveva già cinquantadue anni. Grazie alla sua fama, non dovette sottostare alla disciplina militare e non provò i disagi della trincea, ma sfidò spesso la morte e sarebbe ingiusto ridurre le sue imprese a semplici operazioni propagandistiche. Durante un'azione in idroplano presso Grado perse l'occhio destro, prese parte al volo su Vienna e alla beffa di Buccari, gesta destinate a entrare nella leggenda. Meno conosciuto il suo volo su Trento, avvenuto il 20 settembre 1915. Partito da Asiago a bordo di un «Maurin Farman», di fabbricazione italiana, D'Annunzio lanciò nei pressi del Buonconsiglio ventuno sacchetti di stoffa contenente un lungo messaggio ai Trentini, definiti «fratelli in Dante eterno», dove si rievocavano le battaglie risorgimentali cui avevano preso parte volontari della provincia, come i Bronzetti. Ricordando questo episodio, il poeta raccontava, non senza autocompiacimento, come l'irresistibile impulso di togliersi il casco per gridare dall'alto il suo saluto alla città irredenta, gli avesse provocato una raucedine permanente. I l forzato immobilismo e il deficit visivo seguito all'incidente del 1916 gli diedero l'ispirazione per produrre una delle sue opere più originali e significative: «Notturno», pubblicato nel 1921. D'Annunzio non seppe rassegnarsi alla fine della guerra. Dopo aver vissuto per tre anni nel vortice dell'azione, non riusciva più a tornare al tranquillo lavoro di scrittore. Così, dopo aver coniato la fortunata espressione «vittoria mutilata», cavalcò l'onda del risentimento dei reduci per le poche soddisfazioni raccolte dall'Italia al tavolo della pace, dove la creazione del nuovo Stato iugoslavo, voluta dal presidente americano Wilson, frustrava le aspirazioni italiane di espansione verso l'Istria e la Dalmazia. Nacque così l'impresa fiumana, preceduta dalla costituzione di un corpo militare di centinaia di volontari. Tra di loro, c'era una piccola legione trentina di cui facevano parte nomi illustri, come Giannantonio Manci e Gigino Battisti, che vedevano nell'annessione della città istriana all'Italia il compimento della battaglia

 

 

irredentista. L'avventura di Fiume, che D'Annunzio governò con la grandezza visionaria di un principe rinascimentale, nonostante il blocco navale e l'aperta contrarietà del governo italiano, era destinata a finire nel sangue, la vigilia di Natale del 1921, dopo 492 giorni. Troppo pochi, per il Vate, che aveva sperato che da lì potesse partire un movimento ideale che avrebbe dato vita ad un'Italia gloriosa ed eroica come quella che lui vagheggiava nei suoi versi; troppi invece, per le grandi potenze, che avevano osservato con sconcerto l'indecisione del governo italiano di fronte ad un colpo di mano così destabilizzante. L a costruzione del Vittoriale, sulle rive del Lago di Garda, fu l'ultima ossessione del poeta, che commissionò i lavori all'architetto rivano-ledrense Gian Carlo Maroni. Nella «desolata solitudine» della fosca villa stipata all'inverosimile degli oggetti più disparati, volle essere circondato da cimeli che gli ricordavano il passato: la prua della Nave Puglia colpita a Spalato nel 1920, il motoscafo 

della Beffa di Buccari, un Mas-movimento anti sommergibile che il poeta cambiò in «memento audere semper», oltre al  Mausoleo destinato ad  accogliere, oltre a lui, dieci salme di legionari fiumani, tra cui anche i trentini Italo Conci e Giuseppe Piffer. D'Annunzio era uomo ormai anziano e disilluso, che il regime fascista onorò e finanziò in ogni modo, privandolo però di quella libertà d'azione che aveva causato non pochi grattacapi al precedente governo liberale. Gli vennero conferiti il titolo di Principe di Montenevoso e la Presidenza dell'Accademia d'Italia, ma la sua ispirazione letteraria ormai languiva e produceva solo versi stanchi e retorici, anche se non mancavano gli ammiratori, come Hemingway, che lo definì «forse un po' matto ma profondamente sincero e divinamente coraggioso». D'Annunzio, che aveva accolto con grandi onori la visita della vedova Ernesta Bittanti a Fiume, manifestò spesso il desiderio di visitare a Trento la tomba di Battisti, di cui, commentando la fotografia che lo ritraeva all'uscita del Tribunale dopo la condanna, aveva scritto che rappresentava una delle più grandi immagini della passione risorgimentale e aveva paragonato la sua dignità di fronte alla morte alla bellezza morale dei martiri cristiani. Tuttavia, quella visita non ebbe mai luogo. Forse, dopo tante delusioni, il Comandante di Fiume invidiava al compagno di tante battaglie la morte eroica che a  lui  era stata negata, pur avendola cercata in ogni modo, costringendolo a sopravvivere al suo tempo.

 

 

 

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